di ELISABETTA CRISPONI
"Quando gli spagnoli piombarono sull'America, era il momento di apogeo dell'impero tecnocratico degli inca che si stendeva sull'attuale Perù, sulla Bolivia e sull'Ecuador, abbracciava parte della Colombia e del Cile e giungeva fino al Nord argentino e alla selva brasiliana. Dal canto suo, la confederazione degli aztechi aveva conquistato un alto livello d'organizzazione nella valle del Messico, nello Yucatán e nell'America Centrale, mentre la splendida civiltà dei maya viveva nei popoli loro eredi, organizzati al lavoro e alla guerra".
Compagni d’avventura, cari lettori, l’aria calda di agosto trasporta il nostro Gulliver in acque lontane: tra l'Atlantico e il Pacifico, in quella parte d'America che “L'America” non è, quella che sta a Sud, cioè in basso, più a fondo, come se già la posizione geografica ne suggerisse un profilo di sottomissione e ne sottolineasse la subordinazione.
Un agosto in cui ci arrivano riflessi di fuoco dall'Amazzonia in fiamme, sotto un cielo vestito a lutto, lasciando la scia del fumo più tossico, quello di sporchi interessi e corruzione.
L’estratto riportato sopra, scritto da Eduardo Galeano nella sua splendida opera Le vene aperte dell'America Latina, è il punto di partenza del nostro viaggio, che inizia dalla dominazione dei conquistadores per arrivare fino ad oggi, seguendo passo dopo passo il triste destino, ormai più che noto, degli abitanti di quelle terre. Il mito di Eldorado e quello del “Nuovo Mondo” sono sprofondati in un eterno tramonto, lo scintillìo dell'oro e dell'argento si è offuscato, il tanfo delle miniere di rame e di ferro si è mischiato all’odore del sangue, la polpa dei frutti succosi ha preso il sapore amaro del sacrificio umano e i fiumi neri di petrolio e di caffè scorrono in letti dai fondali avvelenati.
Ripercorrendo la storia di questi popoli, abbiamo davanti una realtà fatta di parole che hanno segnato il dibattito storico e filosofico degli ultimi due secoli, argomentazioni roboanti di politiche ormai estinte e ridotte allo sfascio e alla non identità: capitalismo e socialismo, imperialismo e rivoluzione, progresso e sfruttamento, vincitori e vinti, oppressori e oppressi, malavita organizzata e macelleria umana.
Possiamo parlare, senza prenderci in giro, di sottosviluppo, con la consapevolezza che non sia un qualcosa in evoluzione e “in via di sviluppo”, ma la condizione in cui si tengono certe società per garantire la ricchezza e il progresso di altre.
Scrisse sempre Galeano:
"La società intera si militarizza, lo stato d’emergenza diventa permanente e l’apparato di repressione diventa egemonico a partire da un giro di vite operato dai centri del sistema imperialista. Quando si profila una crisi, è necessario moltiplicare il saccheggio dei paesi poveri per garantire la piena occupazione, le libertà civili e gli alti tassi di sviluppo dei paesi ricchi. Rapporti vittima-carnefice, truce dialettica: esiste una struttura di progressive umiliazioni che inizia nei mercati internazionali e nei centri finanziari e termina nelle case di ogni cittadino". Tagliata fuori dal progresso scientifico e tecnologico, l’America Latina è quel posto dove il salario da fame di chi semina e raccoglie nelle piantagioni fa muovere grandi capitali, trasformando la produzione in svantaggio per chi produce e vantaggio per chi si occupa della distribuzione. Retorica? Epopea ipocrita e "terzomondista", direbbe forse qualcuno. No, realtà storica presente e viva più che mai, realtà dove esistere significa vivere in modo opaco, insapore, rassegnato alla sopportazione.
Come sempre, partiamo da una premessa storica per poi calarci nelle vite dei nostri ragazzi. Questa volta, come avrete capito, incontriamo persone che hanno deciso di stabilirsi in Italia, ma sono figlie di questa parte d’ America che vorrebbe essere madre ma continua ad esser matrigna per i suoi stessi figli.
La prima ad essere presentata sarà M., ecuadoregna, tipetto tutto pepe con cui mi piacerebbe chiacchierare nelle mattine in cui mi alzo con il piede sbagliato. Vive in Lombardia ormai da 20 anni e nell'arco di questo tempo è tornata in Ecuador solo due volte.
Perché venisti proprio in Italia?
«In realtà, io volevo stabilirmi a Londra. Negli anni Novanta ci fu in Ecuador una grave crisi economica, le banche fallirono, così ci fu un esodo della popolazione, soprattutto giovanile. La maggior parte di noi raccoglieva gli unici risparmi per pagarsi il volo verso l’Inghilterra, ma spesso venivamo spediti in Spagna o in Olanda, o rimandati in patria a disperarci e senza un centesimo». Raccontami il tuo arrivo.
«Era il 25 dicembre 2000. Arrivai a Malpensa e trovai la neve. Non avevo mai visto la neve e patito tutto quel freddo, come primo approccio fu abbastanza traumatico. Ero giovane, ingenua e soprattutto sola. Non capivo l’italiano e mi sentivo persa. Poi ho conosciuto altri sudamericani. Sai, le nostre comunità fanno squadra quando si ritrovano per il mondo, ma senza perdere alcuni “vizietti” della mentalità che regna in Sudamerica: ti aiutano a trovare un lavoro, un alloggio, ma devi dare loro del denaro in cambio. Inizialmente ho vissuto in una casa con altre 20 persone, era un macello, c’era di tutto. Ma poi, con l’arrivo del lavoro, è migliorato tutto».
Che lavoro hai svolto?
«Varie cose, le stesse che continuo a fare ancora oggi: assistenza agli anziani, babysitter per i bambini e pulizie. Ero giovane ed energica, pian piano ho preso più consapevolezza e sono diventata più sveglia. Lavoravo tutto il giorno e guadagnavo molto bene. Magari tornassero quei tempi!»
Cosa è cambiato da allora?
«Dopo la crisi del 2008 non c’era più lavoro, ma è dopo l’11 settembre che è cambiato davvero tutto. Le norme per stare all’estero si sono irrigidite, la tolleranza e la diffidenza sono aumentate. Io ricordo che prima del 2001 giravo l’Europa da sola, senza permesso di soggiorno, salivo in treno e via. La polizia magari mi fermava in Francia, in Spagna... vedeva che ero pulita e mi rispediva a Milano. Oggi nessuno ti assume più senza permesso di soggiorno, cosa giusta, ma prima era proprio il “sistema Italia” a non concedercelo. Credo che questo abbia fatto solo danno. Prima di tutto all’economia italiana, perché, non regolarizzandoci, non ci permetteva di versare le tasse. All'Italia stava bene tenerci qui in nero, un grosso sbaglio».
Cosa pensi dell’Italia, dopo tutti questi anni dal tuo arrivo?
«Qui ormai mi sento a casa. L’Ecuador non è un posto sicuro, non si può vivere con tranquillità. Il popolo italiano non è razzista. Se ti comporti bene, fai il tuo lavoro e compi i tuoi doveri di cittadino, non hai problemi. Io ora guadagno molto meno, ma pago tutte le tasse e ho scelto di vivere da persona rispettabile».
E questo ti fa onore. Perché hai deciso di iscriverti a scuola?
«Mi piace studiare, in Italia ho imparato anche questo. La storia Italiana è bellissima, ma fin da bambina mi piace molto studiare Scienze. Ma - ti dico la verità - volevo imparare a scrivere bene... sapessi quante doppie sbaglio!»
Oh beh, è la stessa eredità che gli spagnoli hanno lasciato a noi sardi!
Tra una risata generale, sposto il mio sguardo da M. e lo rivolgo all'altra donna che sta seduta a fianco a lei. S. è boliviana e con orgoglio scandisce la parola “BOLIVIA” quando un suo compagno per sbaglio le dà della cilena.
C’è qualcosa nei suoi occhi e nei suoi lineamenti che mi attira, che mi riporta alla mente visi mai incontrati e situazioni mai vissute, ma impresse nella mia memoria storica. Il volto di S. porta con sé la tragedia del suo Paese, così descritta, alla fine del 1970, dal già citato Galeano:
"In tutto il corso della propria storia, la Bolivia ha prodotto minerali grezzi e discorsi raffinati. Ancor oggi, sei boliviani su dieci non sanno leggere; la metà dei bambini non frequenta la scuola. Nel 1971 la Bolivia doveva ancora mettere in funzione la propria fonderia nazionale per lo stagno, costruita a Oruro dopo un’infinita storia fatta di tradimenti, sabotaggi, intrighi e sangue. […] Per il mondo, la Bolivia non esisteva né cominciò a esistere dopo: il saccheggio dell’argento e, successivamente, la spoliazione dello stagno, sono stati soltanto l’esercizio di un diritto naturale da parte dei paesi ricchi".
S. lavora dall'età di 11 anni, è la figlia maggiore che contribuiva al sostentamento della famiglia. A 22 anni si è sposata e ha deciso di seguire il marito in Italia per cercare un impiego, perché non vuole smettere di lavorare. S. è una mamma che ha lasciato i suoi due bambini a casa propria.
«Sarà solo per un anno. - mi ero detta - Guadagnerò abbastanza per poter tornare a casa».
E invece?
«Invece non è stato così. Il lavoro qui era poco per me, guadagnavo 2,50 euro all’ora. Per sei anni non ho visto i miei figli. - Una lacrima le scorre sul viso. - Ora ormai sono due adolescenti e ci hanno raggiunti qui a Milano da 6 anni. Parlano l’italiano meglio di me, si sono ambientati bene, ma soprattutto mio figlio maggiore mi rinfaccia spesso il fatto di essere stato abbandonato».
Perché hai iniziato a studiare ora?
«Mio marito ha sempre fatto il muratore e ormai il suo fisico è distrutto. Abbiamo pensato di studiare per diventare entrambi Operatori Socio Sanitari».
Ti manca la Bolivia?
«Non mi manca il mio Paese, ma la mia famiglia. Dal 2006 a oggi, ci sono tornata solo una volta, anche perché i biglietti hanno un costo altissimo. Vorrei riuscire a tornarci quest’anno, ho avuto un’altra bimba in Italia e vorrei farla conoscere a mio padre che ormai è anziano».
Dopo la testimonianza di S., raccolgo quella di E., il quale racconta una storia al contrario, ossia quella del figlio rimasto a casa in Perù e cresciuto nella lontananza da un padre emigrato in Italia. Oggi E. ha 20 anni, lui e sua madre hanno raggiunto il padre, ma abituarsi alla convivenza è difficile: sono padre e figlio, ma in realtà sono come due estranei.
«Sono arrivato a Milano nel 2016. Ho fatto il cameriere, ma i turni erano molto pesanti: facevo anche 12 ore ininterrotte. Perciò ho deciso di studiare in questa scuola e poi proseguire gli studi nel campo dell’Informatica».
Al di là dei rapporti con tuo padre, come ti trovi qui?
«L’Italia e l’Europa mi piacciono molto, mentre nel mio Paese c’è troppa delinquenza. A volte soffro il fatto di non avere ancora un’idea ben precisa della professione che andrò a svolgere e il futuro mi spaventa un po’».
Ma questo succede a tutti, è normale. Io stessa son qui a porti domande, approcciandomi ad una professione che in realtà non è ancora la mia. Ogni uomo costruisce se stesso giorno per giorno: non farti intimorire dalle difficoltà, sono certa che troverai la tua strada!
Restiamo sempre in Perù, ma stavolta per raccontare una bellissima storia d’amore.
E tu J., perché sei venuto in Italia?
«Per amore, perché mia moglie è italiana».
Ah! Finalmente un racconto che ha l’amore come protagonista. Mi farò un po’ d’affari tuoi, ti spiace?
J. ride e inizia il suo racconto: «L’ho conosciuta in Perù. Ha vissuto lì per 9 anni, è arrivata quando era una ragazza ventunenne. Ammiravo e stimavo la sua personalità, faceva la volontaria e l’insegnante. Siamo diventati amici, abbiamo iniziato a parlare, a scambiarci idee, culture e affetto. Io ne ero innamorato ma lei veniva da un’esperienza molto tragica: aveva perso il marito, peruviano anche lui, a causa del cancro. È stato difficile per lei aprirsi e fidarsi di me. Oggi ho 33 anni, la mia vita in Italia, una moglie che amo e due splendidi figli di 4 e 2 anni».
Essendo sposato con un’italiana, non dovresti avere problemi per ottenere il permesso di soggiorno.
«Di sicuro ho meno problemi di altri, ma mi sono comunque iscritto a scuola per mettere a posto tutti i documenti. Ora sto facendo il custode in un palazzo residenziale, ma l’esperienza di quest’anno in questa scuola è stata bellissima perché ho conosciuto persone di tutte le parti del mondo».
Hai lasciato il Perù da adulto. Ti manca?
«In questo momento il Perù non vive una bella situazione. È corrotto a livello politico, in più molti venezuelani in fuga stanno arrivando da noi e perciò c’è molto caos».
Io ho parlato con voi, venite da tre nazioni diverse e di tante altre ancora è composto il Sudamerica. Ma trovi ci sia un qualcosa che, al di fuori dell’America Latina, vi faccia sentire tutti connazionali e uniti dallo stesso destino?
«Senza dubbio la lingua in comune è qualcosa che ci lega profondamente. E poi la nostra storia, le situazioni che abbiamo vissuto e viviamo dal punto di vista sociale e politico».
A tal proposito ci forniscono squisiti esempi una storia e cultura sterminate, dove il seme della sofferenza ha generato frutti straordinari di scrittori e giornalisti in mezzo alla censura, rivoluzionari nella repressione più atroce, uomini democratici in mezzo a spietati dittatori.
Addentrandoci nei meandri dell’America Latina, ci accorgiamo che forse "100 anni di Solitudine" sono troppo pochi: in realtà sono molti di più, sono tanti e reali gli Aureliano, gli Arcadio, le Ursula e le Remedios, personaggi raccontatici con maestria dal Premio Nobel Gabriel García Márquez.
Ma, per concludere, mi affido all'ormai amico Eduardo Galeano che ci ha accompagnati per tutto il viaggio:
"C’è molto putridume da gettare nel profondo del mare, sulla via della ricostruzione dell’America Latina. I derubati, i dissanguati, gli umiliati, i maledetti: sì, questo compito spetta a loro. La causa nazionale latinoamericana è, anzitutto, una causa sociale: perché l’America Latina possa rinascere, bisognerà cominciare con il rovesciarne i padroni, paese per paese. Si spalancano tempi di ribellione e cambiamenti. C'è chi crede che il destino sia nel grembo degli dei, ma la verità è che lavora, come una sfida incandescente, sulla coscienza degli uomini".
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